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Royale Hunger Games delle mosche

24 Apr

Ieri sera ho visto il campione d’incassi The Hunger Games. Un buon film, ben confezionato, scritto bene, con dei giovani interpreti che sanno cosa vuol dire recitare e dei navigati professionisti che sanno il fatto loro. A chi interessa, lo consiglio. Ma la questione è un’altra.

Il film è tratto da un romanzo di tal Suzanne Collins, autrice di una saga, oggi funziona così, arrivata al terzo libro. La storia è semplice semplice, a dire il vero. Ogni anno il governo centrale, il cui fulcro è un network televisivo mondiale, sceglie 24 giovani, due per ogni distretto della città, per sfidarsi in una letale riedizione di Giochi senza frontiere. Niente di nuovo sotto il sole, le ispirazioni sono tante, da classici come Il signore delle mosche e I ragazzi della via Pal, passando per le più moderne declinazioni come il nipponico Battle Royale, a opere visionarie della fantascienza tout court. Hunger Games è in effetti una versione teen di The Running Man di Richard Bachman (meglio noto come Stephen King), da cui Paul Michael Glaser (ovvero Starsky, per i più stagionati come me) trasse un giocattolone con Governator. Ma c’è anche una massiccia dose di The Truman Show, senza però la profondità intellettuale di Andrew Niccoll, e soprattutto una riflessione, questa sì affatto banale, sulla moderna società dell’apparenza.

La cosa più interessante di Hunger Games è il coraggio di mostrare la morte della gioventù per sua stessa mano. La costrizione data non dal dittatoriale network, ma dal desiderio di essere accettati e di essere famosi a ogni costo. Mi fermo qui, per non cadere nella banalità di un articolo di Repubblica o nel qualunquismo di un uomo di mezza età, quale sono. Ma se Hunger Games non venisse solo analizzato come un fenomeno da botteghino e come un veicolo per la creazione di una nuova stella, ma anche per quello che in seconda o terza battuta cerca di dire al suo pubblico, e non solo quello di riferimento, sarebbe una bella cosa.

Io sono aperto alla discussione.