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…e tutti risero a Locarno

23 Nov


Era l’agosto del 2001, Festival del Film di Locarno. Dopo una lunga assenza, Peter Bogdanovich gira nuovamente un film per il grande schermo. The Cat’s Meow il titolo, storia di un mistero della Hollywood di tanti anni fa, protagonisti Charlie Chaplin, William Randolph Hearst e altri personaggi che hanno stregato l’immaginario collettivo nel corso dei decenni.

Bogdanovich accompagna il film e riesco a ottenere una intervista singola con lui. Fare le interviste è la cosa che mi è sempre piaciuta di più di questo lavoro. Quando ero all’università e studiavo la storia del cinema attraverso le conversazioni di Truffaut con Hitchcock, dello stesso Bogdanovich con John Ford, Fritz Lang, Orson Welles, sognavo un giorno di poter fare lo stesso. Purtroppo i tempi sono cambiati, e probabilmente io non mi sono impegnato così a fondo per rendere possibile la cosa. Ma nel mio piccolo, me lo dico, le interviste sono la mia specialità. E sono anche bravo, molto. Questa che leggete è forse la migliore che ho fatto, sicuramente quella che mi ha emozionato di più.

Inizialmente avevo trenta minuti a disposizione. Leggendo l’intervista, vedrete che a un certo punto parliamo di …e tutti risero, un film straordinario. Subito dopo la risposta di Bogdanovich, la sua publicist mi disse che il tempo a mia disposizione era finito, ma lui stesso, il regista de L’ultimo spettacolo, mi disse di restare, perché gli stava piacendo parlare con me. Passammo un’altra mezz’ora insieme, parlando di cinema e scrittura, mentre la figlia di Peter, Sashi, stava filmando l’intervista, per un documentario sul padre da realizzare prima o poi. Magari ci sarò anche io, chi lo sa.

Finita l’intervista, Peter mi ringraziò, perché per la prima volta aveva parlato quasi con piacere di cose che hanno segnato la sua vita e mi disse che ero un bravo intervistatore, dandomi qualche consiglio su come migliorare delle cose. Cose che naturalmente mi tengo per me.

Uscito dall’albergo, feci un centinaio di metri e poi scoppia a piangere. Ero davvero felice.

Scrissi l’intervista che state per leggere di getto, in un ristorante a un centinaio di metri dalla Piazza Grande. Il proprietario era un ragazzo di Rimini, c’eravamo conosciuti l’anno prima e ci eravamo rimasti simpatici, scrivevo spesso da lui il pomeriggio, per stare più tranquillo. Quel giorno mi vide che ero particolarmente preso, a sbobinare e scrivere. Senza chiedermelo, mi portò un bicchiere, una bottiglia di bianco del Ticino e mi disse: “Con questa ti verrà meglio. Però me la devi far leggere quando hai finito”.

Era l’8 agosto del 2001. Esattamente ventisette anni prima Richard Nixon rassegnò le dimissioni dalla Casa Bianca a seguito dello scandalo Watergate. Quello stesso giorno Tom Cruise e Nicole Kidman annunciarono ufficialmente il loro divorzio e la Clonaid annunciò al mondo di essere in grado clonare un essere umano, cosa che effettivamente fecero, a loro dire e senza mai fornire prove, il 27 dicembre del 2002, creando una bambina a cui diedero il nome di Eve.

Trentatre giorni dopo era l’11 settembre 2001.

Conversazione con Peter Bogdanovich

Iniziamo parlando di “The Cat’s Meow”, suo ultimo film presentato qui a Locarno. E’ il suo ritorno al cinema dopo molti anni.
Sì, dal ’94 al ’99 ho girato sei o sette film per la televisione, tutti considerati ottimi lavori e ben accolti. Mi sono serviti per poter girare “The Cat’s Meow” che è un film relativamente a basso costo, girato in 31 giorni.

Com’è nata l’idea del film?
Circa 30 anni fa, quando stavo scrivendo il libro intervista su Welles, Orson mi parlò di una cosa che coinvolse William Randolph Hearst e che aveva trattato anche Kenneth Anger in un suo libro. Orson aveva inserito la storia anche nella sceneggiatura originale di “Quarto potere”, ma la tagliò durante la produzione. Anni dopo mi trovavo sulla Queen Elizabeth in viaggio verso l’Europa e mi capitò di raccontare l’episodio ad un critico mio amico. Volle il destino che proprio al ritorno da quel viaggio, trovai sulla mia scrivania una sceneggiatura ispirata a questa storia, tratta da una piece rappresentata in un piccolo teatro di Los Angeles. L’abbiamo letta e ne abbiamo riscritto una buona parte, quindi siamo riusciti a trovare i soldi grazie ad accordi di co-produzione. Abbiamo girato gli interni a Berlino e il resto in Grecia. Possiamo considerarlo una serie di felici coincidenze.

La scelta del cast mi è sembrata altrettanto felice, soprattutto per quanto riguarda Eddie Izzard.
Devo essere sincero, neanche lo conoscevo, me lo avevano segnalato, lo andai a vedere una sera in teatro e ne rimasi molto colpito. Lo incontrai e gli chiesi se era interessato alla parte di Chaplin e lui accettò con entusiasmo. E’ stato un bene, ha avuto tante buone idee e ha contribuito ha costruire molte scene. Anche per gli altri attori ho avuto la stessa fortuna, per Kirsten Dunst che non conoscevo e che è stata perfetta nel ruolo di Marion Davies, e per Edward Herrmann nella parte di Hearst. Joanna Lumley l’ho scelta grazie a Eddie che la conosceva bene, dicendo che quella parte era perfetta per lei ed aveva ragione. Quando hai dei buoni attori che sentono i personaggi allora tutto è molto più facile.

Immagino ci sia stata una grossa ricerca per rendere la storia il più verosimile possibile.
Steven Peros, l’autore della sceneggiatura e della piece, aveva raccolto moltissimo materiale, ma molte cose sono state tagliate o riscritte. Per esempio c’era una scena in cui Hearst offriva dei soldi a Chaplin per garantirsi il suo silenzio, ma non credevo assolutamente nella veridicità della cosa, così come abbiamo riscritto molte delle scene tra Marion e Charlie. Anche la lettera è inventata, ma pensavamo fosse una soluzione che funzionava, anche se un po’ melodrammatica. E poi a Shakespeare queste cose funzionavano sempre.

“The Cat’s Meow” riesce ad essere una storia molto moderna, anche se avvenuta nel 1924.
E’ una storia contemporanea, perché i ricchi e potenti lo sono sempre e il resto del mondo non lo è. In questo caso si tratta di personaggi molto umani, quindi riesce difficile odiarli. Ma comunque stiamo parlando di cinema e quando giri un film non sai mai cosa ne verrà fuori. Una volta feci questa domanda a Jean Renoir e lui mi disse “ma certo che non so come andrà verrà, se lo sapessi non avrei bisogno di farlo… (Bogdanovich cita Renoir con un fantastico accento francese N.d.A.)

L’occasione di parlare con lei è per me quasi un sogno che diventa realtà, Mr. Bogdanovich, e non posso non chiederle qualcosa sulla sua eccezionale carriera. Partiamo dall’inizio e di come arrivò a girare il suo primo film, “Bersagli”.
Iniziai lavorando con Roger Corman e con lui girai “Wild Angels”. Dico girai perché su sei settimane di riprese tre le diressi io. Ero il regista della seconda unità e dato che a Roger piaceva il mio modo di lavorare, quando gli chiesi di poter girare da solo le mie scene lui non ebbe problemi. E lo stesso accadde per il montaggio, perché non mi piaceva come venivano montate le mie scene. Imparai molte cose nelle 22 settimane di quel film e Roger decise poi di produrre “Bersagli”, il mio esordio. Anche di questo e del successivo, “L’ultimo spettacolo”, curai il montaggio, soprattutto per risparmiare. Non avevo molti soldi a disposizione.

“L’ultimo spettacolo” è uno dei film più belli di quel magnifico periodo che furono gli anni ’70 per il cinema americano. Cosa pensa di quest’opera a distanza di 30 anni e come la rapporta al seguito che girò vent’anni dopo, “Texasville”?
L’ho rivisto ultimamente e non l’ho trovato invecchiato, mentre “Texasville” parlava di un altro mondo, in cui i luoghi e i personaggi erano oramai diversi. Purtroppo il film non è mai stato visto nella versione che desideravo e tutta la produzione è stata molto complicata. In realtà “Texasville” aveva venticinque minuti in più che tagliai in cambio della promessa della re-distribuzione de “L’ultimo spettacolo”, così da poter permettere a chi non lo aveva visto, non essendo disponibile neanche in videocassetta, di poterlo recuperare e capire quindi la storia successiva. Poi la cosa saltò e “Texasville” fu comunque distribuito con 25 minuti in meno. La versione integrale, la mia versione, esiste in laser disc.

Per quanto ami moltissimo “L’ultimo spettacolo”, il suo film che preferisco è “…E tutti risero” da cui fuoriesce fortissimo il piacere che ha avuto nel girarlo.
Mi fa molto piacere, perché è anche il mio film preferito, lo adoro, mi ricorda uno dei periodi più felici della mia vita. Una storia bellissima, un cast perfetto e un’armonia irripetibile sul set. E poi era un film fatto tra amici, John Ritter, Audrey Hepburn, Ben Gazzara e Dorothy… Resta il mio film che amo di più.

Ritorno a “The Cat’s Meow” purtroppo pensando a “…E tutti risero”. L’ombra della morte è sempre stata in qualche modo parte del suo cinema e ben più tragicamente della sua vita. Le faccio questa domanda perché proprio qui in conferenza stampa per la prima volta l’ho sentita parlare della morte di Dorothy Stratten, altrimenti non mi sarei permesso di affrontare un tema così intimo e doloroso.
La morte…Nei miei film ci sono stati in totale 6 funerali, non tanti in fondo, ma è vero, è un tema che ricorre. Sulla morte di Dorothy in realtà ho scritto anche un libro, “The Death of the Unicorn” che ha sollevato non poche polemiche negli Stati Uniti. Sono passati 21 anni da quel tragico evento, ma so che quel giorno la mia carriera si è schiantata al suolo, perché cose di questo tipo ti cambiano la vita e quindi anche quello di cui è fatta la vita. Ed è anche una maniera per rifletterci sopra. Ho fatto tanti film, qualcuno buono, altri meno e adesso dopo tanto tempo sono tornato a girare per il grande schermo. Ma tutto questo non conta molto, l’unica cosa che conta è proprio il tempo, l’unico vero giudice.

Oltre che cineasta, lei è anche critico. Le sue interviste con Welles, Lang e Ford sono dei veri e propri classici ormai. Io so come mi sento in questo momento parlando con lei, ma lei come si sentiva di fronte a questi mostri sacri?
Non era così difficile per me all’epoca. Mio padre è più vecchio di mia madre di 20 anni e quindi ho sempre avuto persone adulte o anziane con cui parlare, in più vengo da una famiglia di artisti e la maggior parte delle persone che giravano per casa erano artisti. Era quindi una cosa normale per me, il resto lo faceva la persona che avevi davanti. Con Orson era molto facile per esempio, anche se all’inizio di ogni intervista non parlava mai dei suoi film, cosa che non ha mai amato fare, quindi bisognava farlo sciogliere. John Ford mi impauriva, con la benda sull’occhio e la sua maniera molto rude di parlare. Solo dopo molti anni, riguardando quello che avevo fatto mi sono chiesto: ma come diavolo mi è venuto in mente?

Qual è la cosa più importante che ha imparato da questi grandi maestri?
Ho imparato che i film hanno bisogno di respirare, devono essere freschi. Ho imparato da John Ford che il ciak buono è quasi sempre il primo, perché gli attori sono in forma e possono dare il meglio subito. E da Orson ho imparato che i film sono inscatolati.

In che senso inscatolati?
Hai presente un barattolo di conserva? I film sono così, una volta che li hai girati, montati e finiti restano lì, conservati. L’importante è che quando li inscatoli siano freschi, perché lo saranno anche quando li togli dalla confezione.